Giovane scavezzacollo alla ricerca del successo facile, Peer Gynt è sempre in fuga da tutto e da tutti, una sorta di Pinocchio del folklore norvegese: messo al bando dal suo villaggio, il giovane accetta di sposare la figlia del Vecchio Brose, re dei troll, così da ereditarne il regno. Indossata veste, copricapo e coda da troll, Peer ha dunque rinunciato alla sua natura umana. Ma innanzi alle responsabilità e ai codici della vita trollesca, il ragazzo fa marcia indietro, scatenando l’ira di re Brose e dei suoi sudditi. Ancora una volta deve fuggire. Dopo aver assistito alla madre morente, il giovane lascia l’amata Solveig per mettersi in viaggio. Di avventura in avventura, diventa uomo d’affari, profeta e cercatore d’oro, ma ogni sua impresa è votata al fallimento. Ormai vecchio e povero, salpa per tornare in Norvegia, ma il bastimento fa naufragio. Raggiunta la terra ferma, Peer Gynt scopre di non essere degno del Cielo né dell’Inferno: ha rinunciato tanto alla sua umanità quanto alla sua trollità. Non ha mai saputo scegliere nella vita e, pertanto, non è mai stato «sé stesso»! Sfuggito alle grinfie del misterioso Fonditore di bottoni, che vuole fondere la sua anima insieme ad altre egualmente difettose, Peer Gynt trova riparo presso l’amata Solveig, che lo ha atteso per tutti quegli anni. Si addormenta tra le sue braccia, mentre lontano si ode la voce del Fonditore di bottoni, che lo aspetta al varco. Nel capolavoro teatrale di Henrik Ibsen ed Edvard Grieg il finale rimane in sospeso. Nella versione in rima di Luigi Maio invece i piccoli spettatori avranno l’opportunità di scegliere fra tre diversi finali. In realtà, il finale possibile è uno solo: Peer Gynt deve tornare a scuola! Solo così potrà finalmente imparare a essere sé stesso.